Mimmo e i giudici chiaroveggenti

Il 17 dicembre sono state pubblicate le motivazioni della sentenza di Mimmo Lucano

Motivazioni shock per la condanna a Mimmo Lucano

Caso Riace Per i giudici l’ex sindaco “ha sfruttato l’accoglienza”. Lucano pronto all’appello: “Dimostrerò la mia innocenza”.
L’attesa è durata 78 lunghi giorni. Alla fine le motivazioni della sentenza del processo Xenia che ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi sono state depositate.
L’esposizione dei fatti rilevanti e delle ragioni giuridiche della decisione sono un colpo al cuore del modello Riace. I giudici di Locri smontano pezzo per pezzo l’idea utopica di accoglienza realizzata nel borgo jonico in venti anni.
“La povertà dell’ex sindaco era solo apparenza. In realtà ha sfruttato l’accoglienza per fini personali”. Lucano sarebbe stato dominus indiscusso del sodalizio criminale, sostengono i giudici. Un’organizzazione “tutt’altro che rudimentale, che rispettava regole precise a cui tutti si assoggettavano, permeata dal ruolo centrale, trainante e carismatico di Lucano il quale consentiva ai partecipi da lui prescelti di entrare nel cerchio rassicurante della sua protezione associativa, per poter conseguire illeciti profitti, attraverso i sofisticati meccanismi, collaudati negli anni e che ciascuno eseguiva fornendogli in cambio sostegno elettorale”.
I giudici locresi tuttavia non possono esimersi dal definire encomiabile il progetto inclusivo realizzato da Lucano, “invidiato e preso ad esempio da tutto il mondo. Ma essendosi reso conto che gli importi elargiti dallo Stato erano più che sufficienti, piuttosto che restituire ciò che veniva versato, Lucano aveva pensato di reinvestire in forma privata gran parte di quelle risorse, con progetti di rivalutazione del territorio, che, oltre a costituire un trampolino di lancio per la sua visibilità politica, si sono tradotti nella realizzazione di plurimi investimenti”.
Gli investimenti che Lucano avrebbe fatto con i soldi avanzati dal progetto di accoglienza per i migranti (“l’acquisto di un frantoio e di numerosi beni immobili da destinare ad alberghi per l’accoglienza turistica”), costituivano “una forma sicura di suo arricchimento personale, su cui egli sapeva di poter contare a fine carriera, per garantirsi una tranquillità economica che riteneva gli spettasse, sentendosi ormai stanco per quanto già realizzato in quello specifico settore, per come dallo stesso rivelato nel corso delle ambientali che sono state esaminate”.
Si tratta – annota il presidente del tribunale Fulvio Accurso – di risorse “che pure erano destinate a favore di quelle persone più deboli, del cui benessere e della cui integrazione, però, nessuno si interessava più, se non in forma residuale e strumentale, dal momento che un maggior numero di stranieri avrebbe comportato un aumento degli importi che lo Stato avrebbe corrisposto, cosi alimentando gli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcuna forma di pudore. In buona sostanza nelle numerosissime pagine di intercettazioni e di documenti non vi è alcuna traccia dei fantomatici ‘reati di umanità’ che sono stati in più occasione evocati da più parti, in quanto le vorticose sottrazioni che sono state compiute non servivano affatto a migliorare il sistema di accoglienza e la qualità dell’integrazione, ma solo a trarre profitto nelle diverse forme esaminate che non avranno nessuna connotazione altruistica, né alcunché di edificante”.
Il collegio giudicante spiega di non aver ritenuto possibile concedere né le circostanze attenuanti generiche, né quelle invocate dai suoi legali (per aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale, ndr) “non essendovi alcuna traccia dei motivi di particolare valore morale o sociale per i quali egli avrebbe agito, essendo invece emerso dal contenuto delle intercettazioni che la finalità per cui egli operò per oltre un triennio non ebbe nulla a che vedere con la salvaguardia degli interessi dei migranti, della cui presenza egli tuttavia ebbe a servirsi astutamente, a mò di copertura delle sue azioni predatorie, solo allorquando furono resi noti i contenuti di questa indagine, perché fu in quel momento che ebbe la necessità di mascherare le ragioni di puro profitto per le quali ebbe realmente ad operare (per interesse proprio e degli altri correi), per come si rileva in forma inequivoca dal contenuto delle sue stesse parole emerse dalla complessiva attività tecnica”.
La reazione dell’ex sindaco alla pubblicazione delle motivazioni non si è fatta attendere.
“Le risultanze del processo dimostrano altro. È tutto molto strano. Dal processo non si evince per nulla l’interesse economico. Perché devo subire quest’aggressione mediatica basata su accuse infondate? Si infanga ancora una volta la mia immagine ma io non voglio che la gente abbia dubbi su di me. Aspetto di consultarmi con i miei avvocati per l’appello.
Sono sicuro che dimostrerò la mia innocenza. In pratica – conclude Lucano – il Tribunale mi condanna sulla base di dubbi e di falsità. Il colonnello della guardia di finanza che è stato interrogato ha detto che non ho patrimoni e che non era mia intenzione arricchirmi. Io non ho nulla. Mi domando come mai in tanti anni di indagine gli investigatori non hanno mai trovato un euro nelle mie tasche. Lo hanno detto anche in aula. Dov’è questo tesoro? Non potranno mai dimostrare che mi sono arricchito semplicemente perché la realtà è diversa ed è quella che io ho sempre raccontato”.

Firmato daPubblicato il 18 dicembre 2021
Silvio Messinettisu “Il Manifesto”

Il capovolgimento kafkiano della realtà – La sentenza Lucano

Non ho mai condiviso il luogo comune secondo cui le sentenze non si commentano né si giudicano, almeno fino a che non se ne leggono le motivazioni. Ci sono sentenze che gridano vendetta al cospetto di Dio fin dal dispositivo. Quella finale che ha chiuso il processo per la strage di piazza Fontana senza nessun colpevole, per esempio. O quella sulla strage ferroviaria di Viareggio. O ancora quella sull’eccidio infinito dell’Eternit di Casale. La sentenza del tribunale di Locri contro Mimmo Lucano e il suo «modello Riace» aveva già fatto inorridire al momento del giudizio (condanne doppie rispetto alle richieste dello stesso Pubblico ministero). Ora, lette le motivazioni (904 pagine), la sensazione di trovarsi di fronte a uno scandalo giudiziario è rafforzata. Non solo un’ingiustizia, ma un capovolgimento kafkiano della realtà: della stessa realtà documentata negli atti processuali ampiamente riprodotti, come se i fatti, nel loro passaggio attraverso il labirinto mentale del giudice, mutassero senso e natura, in una metamorfosi mostruosa che rende i protagonisti irriconoscibili per chiunque li abbia conosciuti, da vicino o da lontano.
Così il grande sogno di fare di questo piccolo borgo semiabbandonato della Locride un luogo dell’accoglienza dei migranti e insieme di recupero del territorio (la trasformazione del migrante da problema in risorsa territoriale: questa l’idea geniale che stava dietro quel «modello») si rovescia, nella rappresentazione giudiziaria, in sordido esempio di«logica predatoria» in cui il denaro pubblico e i progetti ministeriali d’integrazione figurano come meri strumenti «asserviti agli appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica», di un sindaco criminale. Chiunque sia stato anche solo qualche giorno a Riace, e abbia visto quella comunità (ora distrutta) farsi giorno per giorno, e la vita ritornare tra le antiche pietre, sa quanto «pulito» fosse quel progetto. Evidentemente chi ha in mente solo la sporcizia della vita, vede tutto sotto questa forma. E infatti i soliti giornali della peggior destra si sono riconosciuti immediatamente in quell’aberrazione giudiziaria, facendola propria. Libero, quello che a suo tempo aveva sparato in prima sui migranti che «Dopo la miseria portano malattie» ora titola: «La sentenza che inchioda Lucano e la sinistra». Gli fa eco il Tempo – che i migranti li butterebbe a mare – con «Lucano derubava i migranti».
Spiace che al coro truculento si accodi sul Fatto anche Marco Travaglio con un tombale: «Accusati di essere troppo cattivi con Mimmo Lucano, dalle motivazioni della sua condanna scopriamo di essere stati troppo buoni».
Lucano – a differenza di molti difesi da Libero e dal Tempo e fustigati da Travaglio, non si è messo nemmeno un centesimo in tasca. Lo scrive lo stesso giudice che «l’ex sindaco sia stato trovato senza un euro in tasca», anche se subito aggiunge che questo «nulla importa» perché lui sa bene che l’utile, il furbacchione (termine di Travaglio) lucrava comunque, in immagine, successo politico, investimento per la vecchiaia (l’estensore delle motivazioni immagina di entrare nella testa stessa dell’imputato, per leggervi le reali intenzioni, non suffragate da nulla). A ben guardare i crimini di Lucano si ridurrebbero a tre: l’aver trattenuto più a lungo dei 900 giorni permessi un certo numero di migranti (i cosiddetti «lungo permanenti», a cui sono dedicate decine e decine di pagine); l’aver investito alcune somme dei sussidi statali in migliorie del contesto (un frantoio, alcune case-albergo) per attrezzare il territorio ad una adeguata abitabilità; aver speso in concerti e spettacoli al fine di attrarre attenzione e turisti nel borgo.
Le cose che ogni buon sindaco dovrebbe fare, soprattutto in quelle aree interne a rischio abbandono di cui tanto si parla e per cui tanto poco si fa. Il tutto con un certo numero di forzature e di violazioni amministrative (che sono indubbie, ma che non meritano certo sanzioni riservate neppure ai colpevoli di reati di mafia). Chi lavora in quei contesti sa benissimo che se non si consolida la permanenza nei luoghi, se non si radicano i nuovi abitanti a un tessuto vivo e capace di produrre reddito, le misure di accoglienza sono come acqua sulle pietre. Ma né i giudici di Locri né i virtuosi della penna al veleno lo sanno, e comunque non gli interessa. Conta lo spettacolo crudele della virtù infangata nella terra dei troppi vizi ’ndranghetisti.

E a proposito di vizi, si è accorto Travaglio, leggendo «le carte», del ruolo non certo secondario nella damnatio di Mimmo Lucano, svolto da un certo Michele Di Bari, al tempo prefetto di Reggio Calabria: l’uomo che tenne nel cassetto una relazione dei propri ispettori elogiativa per Riace e che innescò l’azione della Procura contro il suo sindaco? È lo stesso alto funzionario voluto da Matteo Salvini, quando era ministro dell’interno, al Viminale a occuparsi di contrasto ai migranti e costretto di recente alle dimissioni perché la moglie è indagata per una brutta storia di caporalato e di sfruttamento dei migranti. A ognuno i propri amici. E nemici.

Firmato daPubblicato il 19 dicembre 2021
Marco Revellisu “Il Manifesto”